C’è una strana intimità nelle rovine.
Non solo nelle crepe del cemento o nei neon rotti, ma nel silenzio che rimane.
Questa poesia inizia proprio lì: dove tutto è caduto, ma qualcosa ancora vive.
La voce che ho trovato tra le fessure delle macerie
riecheggia ancora da qualche parte nel mio petto.
Non sappiamo sempre nominare ciò che ci ha ferito.
A volte non è nemmeno un ricordo preciso, ma un’eco.
Una presenza che rimane incastrata nel respiro, tra i battiti.
Questa voce non ha volto né origine.
È diventata parte del corpo, parte del silenzio.
Eppure continua a parlare.
Le lacrime si sono seccate, le parole si sono staccate,
eppure ho guardato il cielo grigio.
Quando non ci sono più lacrime, non vuol dire che non c’è più dolore.
È solo diventato più silenzioso, più denso.
Come polvere fine che si posa su ogni cosa.
Il cielo grigio non promette nulla.
Eppure lo guardiamo.
Cercando qualcosa che nemmeno sappiamo definire.
Forse solo per ricordarci che siamo ancora qui.
Una preghiera che nessuno conosce
la sto bruciando in segreto anche oggi.
Non tutte le preghiere vogliono essere ascoltate.
Alcune sono troppo personali, troppo fragili.
Questa è una di quelle.
Non si tratta di fede, ma di necessità.
Di continuare a custodire un fuoco piccolo, nascosto.
Anche se non illumina nulla.
Anche se nessuno lo vede.
C’è una potenza silenziosa in questo gesto.
Bruciare senza clamore, senza scena.
Solo perché smettere significherebbe spegnersi.
Questa poesia è un frammento, un battito fuori tempo.
Non offre risposte.
Non consola.
Ma accende qualcosa in chi legge.
Fa spazio.
Permette di riconoscere il proprio silenzio, i propri resti ancora caldi.
In un mondo che urla, a volte il sussurro ha più peso.
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